La Rinascente, Esselunga, Fiorucci, Eataly: ripercorriamo la storia di grandi aziende retail per scoprire che le regole base dell’esposizione valgono anche oggi. A cambiare è la capacità di trasformare lo spazio fisico in una narrazione efficace.
Cento anni fa bastavano un bancone, qualche scaffale ordinato e la buona volontà del negoziante. L’esposizione era un gesto spontaneo, quasi istintivo: si mettevano davanti i prodotti che “andavano di più” e dietro quelli meno richiesti. Il cliente entrava, chiedeva, e comprava. Il punto vendita era un luogo funzionale, non emozionale.
Poi arrivarono i grandi magazzini, e con loro la prima rivoluzione silenziosa del retail: il cliente libero di scegliere e di lasciarsi ispirare. Fu in quegli anni che in Italia nacque un luogo simbolo di modernità e bellezza: La Rinascente, inaugurata a Milano nel 1917 dai fratelli Senatore e Ferdinando Borletti, dopo aver rilevato i Magazzini Bocconi. Il nome, suggerito da Gabriele D’Annunzio, evocava l’idea di un’Italia che rinasceva, non soltanto nel commercio, ma nello spirito.
Ispirata ai grandi magazzini parigini come Le Bon Marché e ai modelli di Harrods e Selfridges a Londra, La Rinascente portò in Italia il concetto di shopping come esperienza culturale e visiva. Non era solamente un negozio, ma un palcoscenico: le sue vetrine divennero teatro di creatività, le scale mobili un invito alla scoperta, i reparti un viaggio tra mondi diversi. Per la prima volta, l’esposizione non mostrava soltanto prodotti: raccontava uno stile di vita. Era la nascita della vendita emozionale e del visual merchandising ante litteram.
Nasce la Gdo: l’organizzazione come forma di servizio
Negli anni ‘60-’70 un’altra trasformazione prese forma: quella della grande distribuzione. Nel 1957, a Milano, in viale Regina Giovanna, aprì il primo supermercato Esselunga, fondato da Bernardo Caprotti insieme al gruppo americano Supermarkets Italiani. Fu il primo vero esperimento di vendita self-service organizzata in Italia, ispirato ai modelli statunitensi di Piggly Wiggly e Safeway, ma adattato con eleganza e rigore al gusto italiano.
Per la prima volta, il consumatore poteva girare tra gli scaffali, toccare i prodotti, scegliere in autonomia, spingendo un carrello. Ma Esselunga non si limitò a copiare: ne fece un’arte. Dagli anni ‘60 in poi i punti vendita cominciarono a distinguersi per ordine, pulizia, percorsi studiati, logica dei reparti e segnaletica visiva.
Negli anni successivi Caprotti coinvolse anche architetti di fama, come Vico Magistretti, Ignazio Gardella e Caccia Dominioni, trasformando il supermercato in un luogo armonico, funzionale e moderno. Le corsie, le aree tematiche, i percorsi guidati non erano casuali: erano pensati per rendere l’acquisto più fluido, visibile, leggibile. Il cliente cominciò a camminare dentro il layout, non più solo davanti a un banco. Era la vittoria della logica sull’abitudine e dell’organizzazione come forma di servizio.
Il retail tra arte, cultura, lifestyle
Ma la vera rivoluzione arrivò quando l’esposizione smise di essere una scienza e tornò a essere arte. Negli anni ‘70, sempre a Milano, un giovane stilista cambiò per sempre il modo di pensare il negozio: Elio Fiorucci, figlio di un commerciante di pantofole, aprì nel 1967 in Galleria Passerella il suo primo store. Non una semplice boutique, ma un laboratorio di creatività e cultura pop. Luci al neon, pareti colorate, manifesti, profumi, musica: ogni dettaglio era pensato per stupire e coinvolgere. Fiorucci aveva capito che il punto vendita non doveva soltanto mostrare la merce, ma rappresentare uno stile di vita.
Quando nel 1976 aprì a New York, nel cuore di Manhattan, portò con sé la stessa energia. Quel negozio, spesso definito “il daytime Studio 54”, divenne punto d’incontro di artisti, musicisti e designer. Andy Warhol, Keith Haring, Madonna: tutti passarono da lì. Non si compravano soltanto jeans o t-shirt, ma un modo di sentirsi parte di qualcosa, di appartenere a un mondo.
Con Fiorucci, lo spazio di vendita smise di essere neutro: diventò un messaggio, un racconto visivo, una festa collettiva. Fu il passaggio decisivo dal negozio come “contenitore di prodotti” al negozio come espressione di identità.
Negli anni 2000, un altro marchio italiano ridisegnò le regole del retail: Eataly. Il primo punto vendita aprì a Torino, nel 2007, nell’ex fabbrica del Vermouth Carpano, grazie all’intuizione di Oscar Farinetti. L’idea era semplice e rivoluzionaria insieme: unire mercato e ristorante, vendita e cultura, prodotto e racconto. Eataly nacque ispirandosi ai mercati coperti europei e ai food hall americani, ma aggiunse un ingrediente tipicamente italiano: il valore educativo. Ogni reparto, ogni banco, ogni scaffale non era pensato solamente per esporre, ma per insegnare qualcosa. Sul packaging si leggevano storie di produttori, nei corridoi si tenevano corsi e degustazioni, nei ristoranti si assaggiava ciò che poi si poteva acquistare. Il cliente non entrava semplicemente a comprare, ma a vivere un’esperienza culturale e sensoriale. L’esposizione diventava parte di un racconto più grande, dove la bellezza del prodotto era inseparabile dal suo contesto e dalla sua origine. Era il trionfo del retail esperienziale, la prova che il prodotto, da solo, non basta se non è accompagnato da un luogo, un messaggio e una storia.
Dal prodotto alla narrazione
Oggi non basta più “esporre bene”: bisogna raccontare bene. Ogni scaffale è una storia, ogni ripiano deve trasmettere un senso. Non si tratta soltanto di vendere un collutorio o una crema, ma di costruire una relazione di fiducia, coerenza e bellezza. Il retail moderno è diventato un linguaggio visivo fatto di intenzioni, non di abitudini: chi espone comunica, anche quando pensa di non farlo.
Eppure, nel canale farmacia, molte di queste regole sembrano essere rimaste indietro. Ci sono farmacie che espongono ancora “per marca”, “per abitudine” o, peggio, “perché si è sempre fatto così”. Ma il cliente di oggi, lo sappiamo bene, non si muove più solamente per bisogno: entra per informarsi, confrontare, ispirarsi. E allora anche l’esposizione deve evolversi: diventare uno strumento di consiglio, non soltanto di vendita.
Oggi non basta la visibilità: serve pertinenza. Non basta che un prodotto si veda, deve essere nel posto giusto, al momento giusto, per la persona giusta. Un integratore esposto in piena estate, quando la domanda si concentra su solari e drenanti, non è pertinente, anche se è ben visibile. La pertinenza è la capacità di parlare al bisogno reale del cliente, non al desiderio del farmacista di riempire lo spazio.
Non basta il colore: serve coerenza. Il colore attira, ma se il messaggio visivo non rispecchia il tono e i valori della farmacia, genera dissonanza. Un layout caldo e naturale che accoglie il cliente comunica competenza e ascolto; uno scaffale caotico, anche se colorato, comunica disordine. La coerenza visiva è il linguaggio silenzioso della professionalità.
Non basta la quantità: serve significato. Esporre molto non equivale a comunicare di più. Un’esposizione sovraccarica è come una conversazione gridata: il cliente non sa dove guardare e smette di ascoltare. Ogni prodotto deve “meritare” il suo spazio, perché rappresenta una proposta, un consiglio, una promessa. E quando tutto nello scaffale ha un senso, il cliente lo percepisce: sente che dietro quell’ordine c’è una mente che sceglie, non una mano che riempie.
Quando lo scaffale parla prima del farmacista
La farmacia è uno dei pochi luoghi in cui il prodotto e la persona convivono in equilibrio delicato. Qui l’esposizione non è marketing: è linguaggio. Ogni confezione, ogni ripiano, ogni vetrina dice qualcosa sul modo in cui quella farmacia interpreta la salute. Ecco perché “mettere i prodotti bene” non basta più, bisogna mettere in scena un pensiero.
L’errore più grande oggi non è disporre male, ma esporre senza intenzione. Il cliente che entra percepisce in pochi secondi se sta in un luogo organizzato per vendere o per consigliare. Il primo genera transazioni, il secondo fiducia; e la fiducia, in farmacia, è la moneta più preziosa.
Le nuove regole non stanno nei manuali di visual merchandising, ma nella capacità del titolare di leggere il suo tempo e di decidere cosa comunicare davvero.
Ecco cinque principi che non parlano di scaffali, ma di mentalità:
Esporre è scegliere – Ogni prodotto in vista dice: “Questo lo consiglio io”. Esporre tutto è come non dire niente. La vera professionalità si riconosce anche da ciò che si decide di non mostrare.
La forma è sostanza – Il layout non è estetica, è competenza tradotta in spazio. Un’esposizione ordinata, coerente e leggibile parla al cervello prima ancora che al cuore: è il primo atto di fiducia verso il cliente.
Il consiglio comincia dallo sguardo – Un’esposizione ben pensata anticipa la conversazione al banco. Ogni categoria deve avere un “messaggio implicito”, la promessa di un aiuto concreto, espresso in silenzio.
Cambia ritmo, non soltanto prodotto – La farmacia vive nel tempo delle persone: stagioni, emozioni, fragilità. Aggiornare l’esposizione non è un compito, è un modo per dire “ti vedo, so come stai, mi prendo cura di te anche da qui”.
Lascia spazio al respiro – Lo scaffale non deve essere pieno, deve essere chiaro. Un vuoto ben posizionato attira più di cento colori. È il luogo dove l’occhio si ferma, e la mente del cliente si apre al dialogo.
Chi riesce a fare questo non sta solo vendendo: sta curando con la disposizione.
Perché la vera esposizione non è quella che mostra, ma quella che parla per noi quando non ci siamo davanti al cliente.
E ora tocca a voi!
La verità è che le regole non bastano. Servono visione, coraggio, desiderio di sperimentare. Ogni farmacia può diventare un piccolo laboratorio di innovazione, se il titolare smette di chiedersi “che cosa funziona?” e comincia a domandarsi “che cosa posso creare io?”.
Il retail, lo abbiamo visto, non è mai rimasto fermo: si è trasformato ogni volta che qualcuno ha deciso di guardare il cliente con occhi nuovi. E la farmacia, più di qualunque altro luogo, ha dentro di sé tutto ciò che serve per farlo: professionalità, ascolto, fiducia, prossimità. Non serve copiare la Gdo o la profumeria: serve inventare una forma originale di bellezza funzionale, dove il consiglio si traduce in spazio e il team diventa protagonista del cambiamento.
Lavorate insieme. Provate, cambiate, discutete, sbagliate pure, ma non smettete mai di sperimentare. Perché l’innovazione vera nasce dal desiderio di dare un volto nuovo a una missione antica: prendersi cura delle persone.
Oscar Farinetti lo racconta spesso: quando vendette Unieuro, non aprì subito Eataly. Ci mise anni a studiare il format, a osservare i mercati, a capire come unire cultura e commercio. “Ho studiato, ho viaggiato, ho aspettato. Poi ho trovato la mia formula” dice. E quella formula -una combinazione di autenticità, curiosità e metodo- ha cambiato il modo di vivere il cibo. Ognuno di voi può fare lo stesso. Perché anche la farmacia è un luogo di cultura e il banco è un laboratorio dove si uniscono scienza e umanità. E ricordate: l’esposizione non serve soltanto a vendere, ma a prolungare il consiglio. Anticipa il dialogo -quando guida lo sguardo del cliente prima ancora che chieda- e segue il dialogo, quando mantiene viva la memoria del consiglio ricevuto. È il filo invisibile che unisce il professionista e la persona, anche quando si sono già salutati.
Il futuro della farmacia non sta soltanto nel prodotto o nel consiglio, ma nel modo in cui questi due elementi si parlano. E a farli dialogare, oggi, siete voi: farmacisti capaci di dare forma alle idee, e idee capaci di dare nuova forma alla professione.
E quindi, sono cambiate le regole? Forse no. Forse sono cambiate le persone, le loro aspettative, i loro occhi. Le regole dell’esposizione erano -e restano- semplici: chiarezza, coerenza, empatia, ma oggi queste parole assumono un significato nuovo. Non bastano a “vendere”, servono a far scegliere. E la farmacia del futuro sarà proprio quella che saprà trasformare il suo scaffale da spazio fisico a spazio mentale: un luogo dove il consiglio comincia prima ancora che inizi la conversazione.
(di Nicola Posa, amministratore delegato Shackleton Group, Farma Mese n. 9 – 2025 ©riproduzione riservata)
