Welfare aziendale: i vantaggi “soft” da non sottovalutare

Ed eccoci al sequel rispetto all’articolo del mese scorso (si, lo so… il “sequel” è tanta roba… fa pensare alle grandi serie televisive o a film che fanno il pieno al botteghino! Ma tant’è).

Continuiamo a parlare di persone, che è un argomento molto importante. E questa volta lo faremo scendendo un po’ più nel merito delle dinamiche che si sviluppano sul posto di lavoro e che sono una diretta conseguenza di ciò che succede nella vita.

È noto ormai a tutti (per lo meno a coloro che si confrontano quotidianamente con la gestione delle persone) che trattare con gli esseri umani è uno dei mestieri più difficili del mondo. E in questi ultimi anni lo è diventato ancora di più. Se ci riferiamo alle generazioni che si trovano contemporaneamente nello stesso posto di lavoro, possiamo arrivare a contarne fino a 5! E per semplificazione potremmo parlare dei boomer e della generazione X, che hanno superato i 50 e cominciano a fare il bilancio della loro vita lavorativa: generalmente insorgono i desideri di mollare, levarsi di torno, uscire da meccanismi perversi e godersi il tempo che rimane (in quanto consapevoli che è inferiore a quello già vissuto).

Poi ci sono le generazioni di mezzo, i millennial. E qui le casistiche sono più varie: si va da chi ha il coltello tra i denti a chi incomincia a porsi delle domande. E poi ci sono i giovani, i 25-trentenni. Che approcciano il mondo del lavoro con una mentalità completamente diversa dai loro “padri e madri”, ma anche dai loro cugini o fratelli maggiori.

Per loro il concetto base è “work-life balance”: si lavora per vivere e non viceversa. E il resto lo conosciamo. È più difficile di un tempo trovare nuove generazioni che siano disposte a passare il sabato al lavoro o che vogliano essere reperibili di notte.

A tutto questo, come se non bastasse, si aggiunge un altro tema: quello del cosiddetto “presenteismo” (come viene definito in una ricerca di McKinsey e World Economic Forum), che si differenza dall’assenteismo in quanto le persone sono presenti, fisicamente, ma la loro testa non è al 100% concentrata, in quanto sono psicologicamente non perfettamente stabili. Infine, per non farci mancare nulla, abbiamo i casi di burn-out, che per i giovani sono del 18% superiori alle generazioni più anziane.

E quindi? Quindi torniamo ai temi già anticipati lo scorso mese (il cosiddetto “engagement”). Ma non solo. Parliamo di anche di soldi. E quando si tocca questo tasto è molto facile scivolare nelle logiche dei contratti collettivi, dei costi aziendali, ecc.

Ma, come nel caso delle competenze e delle valutazioni del personale, abbiamo la possibilità di valutare soluzioni “soft” e non solo “hard”.
Il tema è stato trattato a Cosmofarma 2025, ponendo l’attenzione sul Welfare aziendale. Questo argomento viene troppo spesso considerato appannaggio delle grandi organizzazioni, mentre anche la farmacia individuale ne può beneficiare. Tradotto in soldoni, significa avere un piano che permette al dipendente di avere accesso a una piattaforma in cui trova la possibilità di fare visite mediche, pagare la scuola o l’asilo del figlio, fare un corso, iscriversi in palestra o, più semplicemente, ottenere dei buoni spesa o benzina.

E qual è il grande vantaggio? Dal punto di vista “hard” è che il costo per l’azienda e il beneficio per il dipendente sono esattamente uguali, quindi senza alcun incremento di tasse (per l’azienda) o la diminuzione del beneficio dovuto alla tassazione (per il dipendente). Ma poi c’è il vantaggio “soft”: Il dipendente percepisce che l’azienda (il titolare della farmacia) si prende cura di lui. Che vuole agevolare la sua possibilità di fare cose per se stesso. Un po’ come succede con i buoni pasto.

Ormai è sempre più frequente che chi cerca lavoro metta tutto in conto: quindi, non solo il “netto in busta”, ma anche le parti accessorie, le componenti soft. Che, come i dettagli, fanno la differenza. E si può fare.

(Roberto Valente, Farma Mese n. 5– 2025 ©riproduzione riservata)

Related posts